Non esiste solo la produttività di stampo liberista. Avulsa dal contesto sociale, civile e culturale. Serve un approccio più costruttivo e sensato.
Non sta scritto da nessuna parte che deve crescere costantemente, a prescindere dai suoi effetti sull’occupazione, sui lavoratori e sulla comunità.
Chi lo sostiene è animato da pre-giudizio o da una visione vecchia e riduttiva delle imprese e dello sviluppo.
A differenza della semplice crescita quantitativa -del Pil nazionale o del fatturato di ciascuna impresa-, lo sviluppo punta sulla qualità della vita e del benessere che includono l’Educazione, la salute, la libertà, la democrazia, la cultura e la coesione sociale.
L’impresa moderna è una comunità nella comunità che non rinuncia al profitto ma lo mette in relazione al benessere psicofisico dei suoi dipendenti e a quello generale che peraltro rifluisce su sè stessa, nella misura in cui stipendi, pensioni e ammortizzatori sociali fanno girare l’economia.
Se oggi i consumi di prima necessità calano o ristagnano, lo si deve principalmente a retribuzioni, assegni di quiescenza e di sostegno sociale mediamente bassi e costantemente erosi dall’inflazione.
Per i lavoratori e le lavoratrici a tempo pieno classificati come “ceto medio”, che continua a scivolare verso il basso, al danno si aggiunge la beffa del drenaggio fiscale.
Si guadagna meno ma si pagano più tasse. Sembra la commedia dell’assurdo ma è cruda realtà.
Concepire la produttività come banale rapporto tra volumi di vendita e “costo del personale”, ignorando la complessità e necessità di tutti gli altri fattori, ci allontana dalla prospettiva indicata dalla Costituzione. La quale non è un documento tecnico ma un testamento progettuale di rara lungimiranza che concepisce solo una economia di scopo.
In diversi modi ci siamo allontanati dal dettato costituzionale, alcuni dei quali corretti dalla Corte Costituzionale, altri dai Tribunali del lavoro e altri ancora dalle Procure della Repubblica che hanno messo in evidenza lo sconcertante coinvolgimento di grandi imprese in fenomeni di autentico sfruttamento. Dietro i quali c’è sempre l’ossessione della produttività a danno diretto e inequivocabile dei lavoratori.
In una parte consistente del settore privato siamo da tempo in una china pericolosa. Nel Terziario, in Agricoltura e nell’Edilizia spesso anche oltre. I morti sul lavoro sono l’evidenza più drammatica di un malessere profondo attorno al quale trionfa l’ipocrisia e sono evidenti le connivenze.
Molto malessere nel lavoro e da lavoro deriva da questo riduzionismo gestionale, che in realtà è anche culturale e civile e si abbatte sulle persone ridotte a funzioni di format di impresa, di organizzazione delle filiere produttive e del lavoro che sono l’esatto opposto del coinvolgimento e della partecipazione dei lavoratori.
La questione salariale in Italia si è sviluppata e negli ultimi anni anche aggravata grazie a questa semplificazione di comodo che fa da scudo a profitti ed extra profitti teorizzando che solo incrementandoli ulteriormente è possibile aumentare gli stipendi.
E se fosse vero il contrario? Se lo chiede in questo interessante articolo l’economista fuori dal coro, Gaetano Fausto Esposito, il quale sostiene che “la produttività è il risultato finale di fattori storici, scelte tecnologiche, assetti istituzionali e persino culturali, che stanno dietro il risultato di sintesi”.
La tesi di comodo secondo la quale le lavoratrici e i lavoratori italiani hanno stipendi inadeguati “malgrado le imprese” deriva dal sostegno del modello di sviluppo vigente corroborato dalla parte politica che si ostina a non correggerlo.
Quando il Presidente di Confindustria dice che “impresa e lavoro, lavoro e impresa sono la stessa cosa” fa finta di non sapere che lavorare nella (o per la) stessa impresa può generare il folle divario tra ricchezza e povertà di cui ha parlato recentemente anche Papa Leone XIV.
Chi rappresenta le imprese spesso critica aspramente l’Europa, ma raramente e solo timidamente lo fa nei confronti del governo che contribuisce a non farla funzionare, a cominciare dall’enorme sperpero di denaro pubblico per le armi derivante dall’irresponsabile rifiuto di avere una difesa europea comune più efficace e meno costosa.
Sui dazi hanno detto meno del minimo indispensabile nei confronti del ricattatore americano, a Bruxelles invece vanno anche con i trattori, sempre e comunque a chiedere soldi.
Ne chiedono tanti anche nella prossima legge di bilancio. A fondo perduto. Senza nessuna condizione. Con artifici formali che non corrispondono alla realtà. O per meglio dire, che non la cambiano.
Soldi che almeno in parte dovrebbero andare ai lavoratori, a sostegno del lavoro sicuro e dignitoso di cui l’Italia ha tanto e urgente bisogno.
Invece vanno a incrementare una mal concepita produttività che produce profitti aggiuntivi senza tanto merito, impregnati di mal di lavoro con nesso causale evidente. Cambiare prospettiva si può e si deve.
G.G.

Giovanni Gazzo
Author: Giovanni Gazzo

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