Ti è mai capitato di cambiare idea su una cosa solo perché gli altri la pensano in maggioranza diversamente da te?

Il datore di lavoro ti propone di firmare un accordo o di effettuare una modifica contrattuale e, lì per lì, ti dici che non sottoscriverai mai una proposta del genere ma, alla fine, firmi. Perché?

Spesso, facendo sindacato, ci imbattiamo centinaia di volte in queste situazioni: accordi proposti dai datori di lavoro che suggeriamo ai nostri iscritti di non sottoscrivere e che loro puntualmente ratificano. Ma anche in un momento democratico come le riunioni interne sindacali, negli organismi, ci si esprime spesso all’unanimità su fatti, circostanze e decisioni anche molto discutibili dove è quasi impossibile che la storia, le sensibilità e le convinzioni di ognuno possano portare a espressioni di voto diverse. Quando ciò succede con una certa frequenza vuol dire che c’è qualcosa che non va e questo capita soprattutto quando in una organizzazione esiste il culto del capismo, una abitudine alle discussioni di facciata o, peggio, di assenza di discussioni che porta, di fatto, ad una omologazione di base.

Nell’attività sindacale, nella vita di tutti i giorni, nelle vicende politiche che governano la nostra vita, viene spesso utilizzata la persuasione, strumento che può assumere una sfaccettatura etica, nel convincere per esempio le persone ad adottare comportamenti virtuosi ma anche , come spesso succede agli strumenti neutri, assumere una versione manipolatoria tesa a condizionare negativamente i comportamenti. Spesso, per operare in tal senso, si sfruttano tecniche di persuasione individuali ma anche di gruppo. I comportamenti di gruppo in particolare si rifanno a meccanismi ancestrali: da sempre, fin dai tempi antichi, l’uomo ha dovuto sviluppare uno spiccato senso di socialità per cacciare, per difendersi dai nemici: in generale per sopravvivere. Noi ci consideriamo esseri razionali ma non ci rendiamo conto che molti aspetti della nostra vita sono condizionati da comportamenti innati. Se mentre passeggiamo tranquillamente per una strada cittadina ci imbattiamo in una folla di persone che si muove rapidamente e in maniera affannata in senso contrario, l’istinto e quello di fare altrettanto. Se improvvisamente alcune persone che si stanno attorno alzano la testa per guardare in alto anche noi saremo probabilmente tentati dal farlo. Esistono situazioni che fanno scattare istinti primordiali che insieme alle emozioni di base (paura, gioia rabbia e tristezza) condizionano pesantemente i nostri comportamenti. 

Ecco che allora ci ritroviamo, senza saperlo, a comportarci in modo diverso da quello che la ragione ci imporrebbe; e nel mondo del lavoro tutte queste apparenti incoerenze capitano più spesso di quanto non si creda.

Perché succede?

Sono i lavoratori e le persone in generale incoerenti, o scatta qualche automatismo psicologico che alla fine li persuade?

Il meccanismo è abbastanza noto nel campo della psicologia e si chiama “principio della riprova sociale” e si basa sul fatto che il nostro comportamento e le nostre convinzioni cambiano se assistiamo o operiamo in solitudine oppure in gruppo.

Mussolini teneva sul suo comodino il libro “Psicologia delle folle”, di Gustav Le Bonn, che spiega bene alcuni fenomeni ricordando che le folle hanno una propria intelligenza e che alcuni comportamenti, che non terremmo mai singolarmente, in una folla diventano la normalità.

Citando qualche esempio negativo si pensi ai tifosi di una squadra, ai cori razzisti che spesso sentiamo agli stadi, oppure, in senso positivo, alle manifestazioni pacifiche organizzate in segno di protesta civile da partiti e sindacati.

Un altro esempio potrebbe essere il sentiment o le opinioni delle singole persone e quello che viene espresso in una riunione sindacale: non ci si spiega come mai la singola persona abbia un opinione ma in assemblea ne esprima un’altra!

Chi ha studiato questo fenomeno recentemente è uno psicologo di fama mondiale, Robert Cialdini, che nei suoi due splendidi libri “le armi della persuasione” e “pre-suasione” analizza a fondo il fenomeno.

L’assunto di base è che noi tendiamo a comportarci come si comporta la massa.

Se in un gruppo più persone la pensano in un modo, questi condizioneranno quasi certamente anche il comportamento degli altri, soprattutto quando le persone che effettuano delle scelte hanno un ruolo di riferimento per le persone indecisi o più facilmente influenzabili.

Può capitare di avvallare tesi su cui non siamo d’accordo ma se appoggiate da altri le consideriamo una valida possibilità se non l’unica possibilità.

È un trucco ormai risaputo anche nel campo della ristorazione; se vuole spingere un piatto piuttosto che un altro il ristoratore non deve ricorrere a strategie particolari; è sufficiente che indichi il piatto come il preferito dal pubblico: molti avventori saranno indotti a fare quella scelta.

Per indurre più persone ad adottare un comportamento (pagare una bolletta puntualmente, timbrare un cartellino, tenere in ordine uno spazio comune) è più efficace sottolineare che la maggior parte adotta comportamenti virtuosi piuttosto che minacciare sanzioni se non ci si adegua alla regola.

In questo meccanismo psicologico ha poi un ruolo centrale l’autorità: se una opzione viene proposta da una persona che ricopre un ruolo autorevole (un capo, un agente delle forze dell’ordine, un referente autorevole), è facile rimanere persuasi.

Se poi questi aspetti vengono combinati insieme, si ha un cocktail micidiale: un capo che ti dice cosa fare spiegandoti che questa scelta è stata già operata da altre persone appartenenti ad un gruppo. La strategia avrebbe effetto anche se non fosse vero e quella scelta fosse stata solo confezionata per l’occasione!

Ecco che un accordo, una votazione, un cambio di condizioni contrattuali, anche svantaggioso per la persona, viene considerato normale e tollerato perfino se palesemente contrario al proprio interesse.

Questi fenomeni sono più diffusi di quanto non si creda e spesso ne cadiamo vittime inconsapevoli o consapevoli di aver agito contro i propri principi ma in coerenza con la scelta effettuata dagli altri, anche se l’opzione è più svantaggiosa o addirittura inesistente.

Prima di chiederci quindi perché un lavoratore opera una scelta in una direzione piuttosto che in un’altra, chiediamoci in che condizioni è stata maturata quella decisione.

Se si è nelle condizioni di poter modificare lo scenario (a volte si è purtroppo costretti a subire l’autorità), dite a quella singola persona che la sua è una scelta che non deve dipendere da quello che fanno gli altri e che proprio la sua scelta potrebbe condizionare anche quella di altre persone innescando un meccanismo a catena difficilmente modificabile.

In poche parole la persona va responsabilizzata sapendo però che ogni contesto e ogni situazione è a sè.

Per comprendere ancora meglio può essere utile un altro esempio di un caso tratto da uno dei libri di Robert Cialdini.

In un esperimento realizzato da un gruppo di psicologi, una persona si accascia a terra all’angolo di una trafficatissima strada di una città americana.

Le prime persone che passano vedono l’accaduto ma non si fermano a prestare soccorso alla persona a terra: anche gli altri che seguono, vedendo il comportamento dei primi, si astengono dall’intervenire nonostante la persona chiedesse genericamente aiuto!

Il suggerimento che dà l’autore, se dovesse capitare una cosa del genere, cioè se vi doveste sentire male è quello di catturare l’attenzione di un passante specifico e rivolgersi direttamente a lui per il soccorso: a quel punto l’avventore si sente direttamente ingaggiato ed è più probabile che presti aiuto. E che anche altri seguano il suo esempio.

Ecco noi dobbiamo sentirci direttamente ingaggiati o far sentire direttamente ingaggiate le persone: è l’unico modo “ortodosso” per modificare lo scenario.

Nel mondo sindacale capita spesso che nelle riunioni ci si esprima o si voti in senso diverso dal pensiero che si ha individualmente. Si assiste a poche riunioni, anche e soprattutto dei gruppi dirigenti, dove le votazioni in riunioni o in organismi sono articolate: è sempre più frequente il meccanismo dell’ omologazione alla maggioranza: l’unanimità è spesso la prassi e quando qualcuno esprime un parere contrario o un astensione rischia di essere additato come “il diverso” o la “pecora nera” fuori dal gruppo, a volte addirittura come il nemico da abbattere. Rimanere lucidi non è sempre facile e appartenere a gruppi e organizzazioni che consentono di esprimersi liberamente, senza eccessivi condizionamenti, anche nel mondo sindacale, non è purtroppo cosa comune. Quando in una organizzazione non esiste il concetto di minoranza, quando prevale il culto della personalità dei capi, se le decisioni vengono prese negli organismi sempre all’unanimità e senza dibattito o con una discussione di facciata, allora c’è da diffidare.

Un ultima riflessione per chi risponde “me lo ha detto il capo”!

Un aspetto su cui focalizzare l’attenzione è che un capo o una persona autorevole è prima di tutto una persona e può, in quanto tale, sbagliare.

Non è quindi necessario accondiscendere a quanto chiesto dal superiore solo perché in quel momento sta esercitando l’autorità.

Bisogna cercare di farsi sempre una propria opinione delle cose, anche se il nostro cervello naturalmente cerca delle scorciatoie e odia l’incertezza.

A volte risulta più comodo credere a quanto ci viene detto da una persona autorevole piuttosto che cercare di ragionare bene quella stessa cosa: la seconda opzione costa fatica e il nostro cervello è fatto per faticare il meno possibile.

Abbiamo, in sostanza, un cervello pigro.

Si pensi a quanto è difficile scansare pregiudizi o opinioni che ci siamo fatti: metterli ogni volta in discussione costa fatica.

Dubitare costa fatica: meglio avere delle certezze…è più comodo.

È normale che questo succeda perché se dovessimo ripensare e mettere in discussione ogni nostra certezza (come scendere le scale, come si prepara un uovo sodo, se posso salutare il mio vicino o nascondermi quando lo vedo) sarebbe davvero una grande fatica ma dobbiamo essere consapevoli che il tentativo del nostro cervello di cercare scorciatoie facili è praticato costantemente anche nelle cose che richiederebbero maggior riflessione.

Michele Tamburrelli

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *